venerdì 13 aprile 2012

Un paese vecchio con pochi medici

Su quali gambe camminerà la sanità di domani? In uno scenario futuro di un’Italia dai capelli grigi, con un’esplosione di necessità per le cure croniche, il sistema sanitario potrebbe trovarsi impreparato. Già oggi, nel nostro paese abbiamo una carenza strutturale di almeno 5mila medici tra radiologi, anestesisti e personale dell’area d’emergenza (anche se i sindacati parlano di cifre ben più pesanti). Che, conti alla mano, significa che tra una decina di anni, mancherà un dottore su due.
E lo snellimento è stato ben fotografato dall’analisi della Ragioneria generale dello stato dove si legge che in un solo anno, dal 2009 al 2010, il nostro Sistema sanitario nazionale ha perso oltre 5.200 unità di personale, in gran parte medici e dirigenti non medici che perdono rispettivamente l’1,3 e l’1,7% delle forze lavoro.
Una fotografia che fa intravvedere i risultati di un’azione a tenaglia, da una parte del blocco delle assunzioni imposto alle regioni con i conti in rosso e, dall’altra, dalla riforma pensionistica: tant’è che oggi sono più i medici che escono dal mercato del lavoro che quelli che riescono a entrare, calcolando l’ingresso fin dall’università. Perché c’è un fatto che si sottolinea ancora poco. Superato il boom degli anni Settanta, quando le facoltà non avevano il numero chiuso e la percentuale di medici crebbe a dismisura, la situazione nel tempo si è capovolta. Quando andranno in pensione i laureati del decennio 1975-1985 (entro il 2020), la crisi si farà drammatica.
Ed è doveroso rilevare che questa inappropriatezza sul fabbisogno formativo non riguarda solo l’accesso alla professione medica, ma va estesa anche alle altre categoria della dirigenza sanitaria: veterinari, farmacisti, biologi, chimici, fisici e psicologi. A segnalare questa totale inadeguatezza, valga l’esempio dei biologi: a partire dall’anno accademico 2010-2011, ben 15 atenei sedi di scuole di specializzazioni non hanno prodotto bandi di ammissione per la categoria, che però ha l’obbligo del possesso del diploma di specializzazione quale requisito d’accesso ai pubblici concorsi del Ssn. A fronte di un fabbisogno stimato in almeno 700 accessi all’anno, il numero complessivo degli ingressi alle scuole si è ridotto del 50%. Tacendo del fatto che, al contrario degli specializzandi medici, per le altri professioni non è prevista remunerazione e di fatto, i giovani lavorano gratis per la nostra salute.
Oggi, la formazione del personale sanitario avviene senza tener conto dell’andamento della curva demografica che ci consegna un paese che invecchia e dove pertanto aumentano i reali bisogni assistenziali dei territori. Sicuramente, per il futuro è un segnale positivo quel 10% di posti in più nelle facoltà di medicina imposto dal decreto firmato a novembre dal ministro alla salute Renato Balduzzi, ma dobbiamo fare i conti con studenti che saranno medici specializzati non prima di una decina d’anni, ovvero proprio quando l’emergenza da “gobba previdenziale” avrà già prodotto i suoi danni.
Intanto un’altra categoria sanitaria fa sentire forte la sua voce: gli infermieri. Anche per loro, a fronte di un’esigenza esplosiva di queste professionalità, il numero degli accessi ai corsi universitari per le professioni sanitarie è stato ridotto dell’8%.
Di sicuro c’è un fatto, occorre intervenire subito. La sanità di domani rischia di diventare una brutta copia di quella che abbiamo oggi e il cambiamento deve partire dalle fondamenta, prevedendo una più democratica e appropriata regolamentazione degli ingressi per accedere alle professioni sanitarie: mediche e non, superando schemi interpretativi di un mondo del lavoro e dell’assistenza che hanno perso ogni attualità.
http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/134042/un_paese_vecchio_con_pochi_medici

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